Capitolo 4.
La strada era in alto e per arrivare al mare c’era
una sorta di sgangherata scalinata scavata nella roccia da percorrere. Avevo
sempre un po’ di apprensione perché era molto ripida e priva di qualsiasi punto
di appoggio.
Il nonno mi teneva forte la mano perché i sassi, sui
quali ci appoggiavamo per scendere, erano storti e rotti e facilmente i piedi
slittavano per cacciarsi dove non dovevano andare. Per rendermi più allegra
tutta l’operazione, lui cantava una filastrocca che io dovevo ripetere, per
distrarmi dal possibile pericolo, e ogni giorno la sillabavamo come un mantra
che mi rassicurava. Se l’avessimo detta tutta e senza errori, la discesa
sarebbe andata bene.
“Uno è il delfino che salta sull’onda, due le meduse nell’acqua
profonda, tre sono le rane dentro lo stagno, quattro le oche che fanno il
bagno…”
La tiritera arrivava al dieci con i bruchi che
mangiano le pere, ma noi a quel punto eravamo solo a metà del percorso e quindi
ricominciavamo con una nuova storiella:
“Uno è il sole che splende di giorno, due sono gli
occhi che guardano intorno, tre sono i magi che vanno che vanno, 4 stagioni formano
un anno…” e alla fine toccavamo terra ed eravamo arrivati al mare.
La spiaggia che incontravamo non era altro che una
stretta lingua di ciottoli, tanti mattoni e scogli. Il nonno la chiamava “la
spiaggia rossa”.
In alto si vedevano la cresta della strada colma di
fichi d’india, piante di ginestre e pini che segnavano il crostone di pietra
sul quale, più in alto ancora, un castello militare posto a difesa della
cittadina, imponeva la sua presenza grazie ad una pianta quadrata solida e
rassicurante.
In spiaggia i miei piedi non godevano della
morbidezza della sabbia ed io tenevo sempre i sandali perché sentivo meno male.
L’acqua però era trasparente e fredda. Bella, proprio perché non annebbiata
dalla sabbia, permetteva a chi ci entrava di vedere il fondale e di guardarsi
le gambe.
C’era un primo tratto nel quale riuscivo a toccare
con i piedi, appoggiandoli sopra enormi pietroni pieni di viscide alghe, poi lo
strapiombo, blu scuro, dove io non arrivavo mai.
Dopo un rapido bagno che ci rinfrescava, cominciavo a
giocare. Il mio rituale prevedeva sempre un lungo momento tutto mio. Mi piaceva
divertirmi da sola. Dalla piccola borsa tiravo fuori i miei giochi. Niente
formine o paletta, la sabbia non c’era e sarebbe stato inutile averle. Avevo
invece un secchiello che portava il nonno e due bamboline di plastica con
qualche tegamino. Disponevo tutto sui sassi e la mia fantasia faceva il resto.
Alcune volte preparavo il pranzo per le mie amiche
“Signora Luisa assaggi questa frittatina. Senta com’è
buona…”
Altre volte facevo loro il bagno, altre ancora, ero
la mamma che impartiva lezioni di buon comportamento ai figli.
“No Roberto, così non puoi comportarti, devi darmi
retta. Quando dico di venire qui devi obbedire subito. Qua ci sono tanti pericoli
e tu sei piccolo. Guarda tua sorella e impara!”
Il nonno nel frattempo leggeva il giornale senza
perdermi di vista e senza interrompermi.
Poi era il momento del secondo bagno, più lungo e
gratificante. Dovevo ancora imparare a nuotare bene e lui si prodigava ad
insegnarmi, soprattutto per non avere
paura, anche se a volte toccavo appena il fondo.
“Metti la testa sott’acqua e apri gli occhi” mi
diceva ed io obbedivo sentendo il sale pizzicare.
Quanti schizzi facevo nei piccoli tuffi e quanto si
muovevano le mie gambe e i miei piedi per rimanere a galla.
Il paesaggio che riuscivo a vedere da lì era molto
bello. Alti scogli incorniciavano quell’angolo di mare, come pilastri
protettivi a farne da cornice, e l’acqua cristallina rifletteva il
verde-azzurro del cielo.
Una volta usciti mangiavamo la merenda preparata
dalla nonna. Un panino con la mortadella oppure con della marmellata, mi
sembravano una vera delizia.
A quel punto cominciavamo la nostra pesca.
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