Capitolo 3.
Dopo i binari del treno trovavamo davanti a noi un
vasto campo.
Era coltivato a granturco. Io ero piccola ed
attraversare quella zona era un po’ come passare in un luogo dove potevano
spuntare perfino animali feroci. Dovevo stare molto attenta.
Non potevo calpestare le alte piante di mais, e
quindi scansavo con i piedi la base dei fusti. Il nonno me lo ripeteva sempre
ed io avevo presto imparato.
Avevo dei sandaletti che a volte col sudore mi
scivolavano un po’ ma mi piacevano tanto e anche se ormai erano vecchi, ogni
giorno, testardamente, me li infilavo come una reliquia da portare con me per
tutta la giornata.
Capitava che il nonno mi desse una pannocchia da
sgranocchiare.
Ricordo che una volta gli chiesi “Nonno ma possiamo mangiare questa roba non nostra?”
La sua
risposta fu: “No, non si potrebbe fare, ma lo facciamo lo stesso. Questo è un
bene della natura e non facciamo male a nessuno. Guarda questo campo quanto è
grande, ci sono pannocchie per tutti. Noi ne prendiamo una sola, ogni tanto, e
non calpestiamo né roviniamo le piante.”
Io credetti a ciò che mi disse, perché il mio nonno
aveva sempre ragione, e affondai i denti nei chicchi gialli e maturi con un
sorriso.
Il campo era profondo e il percorso tortuoso perché
altre coltivazioni affiancavano il mais.
Per farmi felice ed incitarmi a proseguire, lui mi
raccontava sempre storie inventate lì per lì che parlavano di animali, natura
selvaggia e uomini alla ricerca di avventure come se lui le avesse vissute
durante i suoi viaggi per mare e per terra.
Ogni giorno ascoltavo in religioso silenzio tutto ciò
che mi narrava, cercando di riportare alla mia realtà il fiume di parole che si
libravano nel vento.
Alcune volte mi sentivo la protagonista dei fatti e
mi vedevo ormai grande, padrona di sogni e di desideri nascosti, affrontare mille
pericoli senza averne paura. Altre, ero la bambina solitaria e innocente, tanto
vicina a me, che fuggiva dai dolori scegliendo di soffrire pur di non rimanere
sola.
Dopo aver percorso un tratto pieno di papaveri, che a
volte raccoglievo e mi portavo dentro la borsetta, che conteneva i miei giochi
preferiti, trovavamo uno stretto corridoio di girasoli e lì dovevamo fare un
giro più lungo per passare oltre. Bellissimi, col capo chino e i chicchi
maturi, quei fiori mi accompagnavano nell’ultimo tratto prima dell’arrivo e il
nonno mi spiegava che dai chicchi si faceva l’olio e che, durante la giornata, seguivano
con la corolla il passaggio del sole.
“Che buffo” pensavo “fiori che si muovono.”
Poi, dopo l’ultima svolta, all’improvviso ecco la
strada, polverosa, che mi avrebbe portato alla discesa verso il mare.
Sulla sinistra dello sterrato che percorrevamo, un
grande cancello di ferro si apriva sul cimitero del paese. Da fuori si vedevano
le lapidi più imponenti, una accanto all’altra, alcune con statue bianchissime
altre inverdite ormai dal tempo e dalla salsedine. Angeli e donne piangenti
erano le figure più rappresentate e diventavano un tutt’uno con la terra che
accoglieva le salme.
Non mi piaceva un granché quel punto preciso di tutto
il nostro percorso.
L’idea che avevo della morte in quel momento era
molto vaga; sapevo sì che era un viaggio senza ritorno, ma non avevo ancora
chiaro cosa volesse dire la parola “dolore”, cioè quella disperazione che può prenderti
e rubarti intere giornate perché queste trascorrono solo nel ricordo e nel
pianto della persona che hai amato.
Nessuno dei miei parenti conosciuti aveva ancora percorso
quel viaggio ed io non sentivo tristezza, nonostante questo però, dover passare
quasi quotidianamente davanti a quel cancello mi faceva male, pertanto noi scivolavamo
veloci ed iniziavamo una rocambolesca discesa verso la spiaggia.
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