Capitolo 7.
La struttura esterna della casa, sul lato che non
dava sulla strada, era abbastanza particolare.
Dalla portafinestra di cucina si usciva in una zona
quadrata, un terrazzino che aveva a sinistra un muretto ed un’apertura con dei
gradini che salivano verso un altro terrazzo, appartenente all’abitazione
confinante. Non c’era separazione fra i
due terrazzi ed io potevo andare a trovare Arturo, un bambino di dieci anni che
non aveva più il padre.
Magrolino e sempre pallido nonostante vivesse in un
posto di mare, Arturo aveva l’aria del malato fisso. Era simpatico ed io ci
giocavo volentieri ma la sua mamma non voleva che si stancasse e alcune volte
mi mandava via nel bel mezzo di un’avventura con i pirati. Ricordo di aver
chiesto alla nonna che cosa avesse, perché anch’io soffrivo spesso di
tonsilliti e quando mi ritrovavo con la febbre e il dolore alla gola quasi
insopportabile pensavo a lui e alle sue sofferenze. Ma la nonna non ha mai
voluto raccontarmi la verità e solo molti anni dopo ho saputo che se n’era
andato via per una leucemia e che la mamma non aveva saputo darsi pace a tal
punto che era sparita, in mare, un giorno di ottobre.
Questo ragazzino però ha lasciato un segno indelebile
nella mia mente.
Grazie a lui ho scoperto il sesso.
Certo questa è una parolona da dire, ma non ci sono
dubbi sul fatto che fu lui a farmi capire la differenza fra maschi e femmine.
Ero piccola e ingenua a cinque anni. Frequentavo l’asilo
ma quella era una struttura gestita da suore che, pur nella promiscuità delle
classi fra maschi e femmine, non lasciavano adito a pensieri di nessun genere.
In verità a tre anni, a dispetto di tutto, mi ero innamorata di Paolo che
frequentava la mia stessa classe e una volta lui, che ricambiava i miei
“sentimenti”, mi aveva dato un bacio sulla guancia. Io non avevo lavato quel
punto preciso del viso per tanto tempo, illudendomi che sarebbe rimasto
stampato un po’ di lui su di me ma poi, col passare del tempo tutto si era
affievolito e i teneri sentimenti di bambini, si erano dileguati.
Nella casa al mare mi sentivo più libera che in città.
Arturo mi faceva usare i suoi giochi quando ci trovavamo sul suo terrazzo e,
alcune volte, mi portava dietro un angolo nascosto perché almeno nessuno ci
vedeva. Fu così che in un pomeriggio particolarmente caldo lui si spogliò
completamente davanti a me ed io rimasi a bocca aperta, incapace di chiedergli
che cosa fosse quella cosa che aveva fra le gambe. Lui sembrava sfidarmi, era
più grande di me e quindi era anche più smaliziato.
“Toccami pure, ci puoi giocare se vuoi. Questo è solo
un pezzetto del mio corpo, come un braccio o un piede. Quelli li tocchi
continuamente quando giochiamo quindi puoi toccare anche lui.”
Inutile dire che il leggero cambiamento che vidi
nelle dimensioni e nella durezza non mi impaurirono. Era una parte del suo corpo,
mi aveva detto, e quindi che paura potevo avere? Nessuno ci vide quel giorno e
neppure le altre volte nelle quali il gioco continuò a diventare fisico, solo a
suo beneficio.
Quando da adulta provai di nuovo a toccare il sesso
di un uomo, il ricordo di quel ragazzo mi fece compagnia e mi procurò strane
sensazioni alla sola idea di quella bravata fatta da piccola.
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