Capitolo 15.
Mentre Silverio era
lontano io crescevo in solitudine.
I miei genitori scelsero
per me una scuola privata gestita da suore. Mio padre aveva finalmente un
regolare stipendio e mia madre non volle assolutamente farmi frequentare
l’asilo comunale. Diceva:
“Non mi piace che ti
mescoli con tutti quei bambini. Voglio che tu vada in una scuola dove sarai
seguita e dove troverai compagni migliori, figli di persone più ricche, e dove
ti farai delle amiche sicuramente più in gamba”.
La scelta fu la mia
condanna almeno per cinque dei sette anni trascorsi lì.
Se l’intento era di fare
amicizie di ceto sociale più alto del nostro, il fallimento fu evidente da
subito, ma non inficiò minimamente la recondita fiducia che mia madre aveva nel
suo progetto, nonostante che questo prevedesse ulteriori sacrifici economici.
La scuola era abbastanza
vicina alla nostra abitazione. Passavamo a piedi una piazza e dopo aver incrociato
un paio di strade arrivavamo al grande cancello verde che immetteva nel
giardino. Esteticamente la scuola si presentava bene dando un’idea di
tranquillità ed ordine.
Oltre il cancello ed il
giardino antistante il portone d’ingresso c’era una costruzione bassa, un paio
di piani, intonacata di un caldo beige. Persiane marroni, terrazzino sopra
l’ingresso. La porta era a vetri colorati e piombati e dentro, l’atrio era
ampio ed odorava di pulito. La struttura esterna, più recente, si allungava
sulla sinistra con tante finestre che davano su un cortile. Il giardino invece
proseguiva sulla destra rispetto al portone ed era ampio e pieno di grandi
alberi.
La mamma decantava tutte
le lodi dell’ambiente e mi diceva che mi sarei trovata benissimo. Sembrava un
merlo o un pappagallo che ripete pedissequamente sempre le stesse parole, (*che imita
passivamente qualcuno o qualcosa senza alcun apporto di originalità) al fine di convincere se
stessa e me di qualcosa che invece non garantiva proprio niente.
Io, persa in quegli
ambienti nuovi dai pavimenti lustri, non mi sentivo tranquilla e tenevo la mano
della mamma stretta stretta con la paura che mi abbandonasse.
Arrivò una suora chiamata
da quella che ci aveva aperto e si mise a parlare con mamma sulle regole
dell’istituto e sulla retta.
La mamma mi presentò:
“Lei si chiama Anna. Verrà
molto volentieri. E’ una bambina silenziosa ed obbediente”
“Bene. Qui tutti devono
rispettare le regole. Comunque ormai inizierà lunedì. La sua insegnante si
chiama suor Rosina. Ha tutti bambini di quattro anni quindi Anna andrà con lei”
poi si rivolse a me “Vuoi conoscere la tua maestra?”
Feci sì con la testa, non
osavo aprire bocca.
La suora allora mi portò
nelle stanze dell’asilo e lì vidi l’unica persona che abbia amato in quella
scuola, l’unica che abbia avuto rispetto per me bambina e che mi abbia
insegnato a giocare, recitare, cantare stare con gli altri.
Suor Rosina era alta e
magra. Si rivolgeva a noi bambini sempre con garbo, non brontolava ma spiegava
cosa e come dovevamo fare le attività che ci proponeva. Ogni tanto ci portava a
giocare in giardino ed io ero felicissima di poter correre e giocare all’aria
aperta, cosa che non facevo mai.
Non saprei dire neppure
oggi, ripensando a lei, quanti anni potesse avere o di quale colore fossero i
suoi capelli. Per me era solamente “la mia maestra” e non mi importava altro.
Quegli anni fuggirono
veloci e pur non avendo ancora fatto amicizia con nessuno in modo particolare
la mia esistenza in quell’ambiente trascorse serena ma, una volta entrata in
prima elementare, le cose cambiarono radicalmente.
La scuola elementare
iniziò ad ottobre, come ogni anno a quell’epoca, e già da subito i rapporti con
le maestre/suore misero in evidenza tutte le problematiche che sarebbero
diventate sempre più pressanti nel corso degli anni. Non va dimenticato che io
venivo da una famiglia di operai e che quindi non potevo godere della
considerazione che avevano alcuni compagni, figli di avvocati o architetti. Pur
pagando la retta regolarmente come gli altri il gap culturale ed economico era
la mia spada di Damocle quotidiana.
“Anna devi scrivere meglio
sul quaderno, questa calligrafia è indecente.”
“Fai dei disegni
bruttissimi, non sei capace neppure di fare una casa come va fatta.”
“Chi sta cantando così
male fra di voi? Anna sei tu come al solito!”
“Ma cosa scrivi nei
pensierini? Sempre le solite frasi. Devi raccontare come hai trascorso la
domenica. Andrai pure da qualche parte no? Devi parlare, far capire a tutti
dove sei stata!”
La mia vita scorreva fra
un rimprovero ed un altro. Ma cosa dovevo raccontare della domenica se non mi
muovevo mai da casa oppure, perché dirmi che stonavo quando muovevo solo la
bocca perché non avevo mai voglia di cantare?
Nella mia testa, come un
chiodo fisso, avevo l’idea che non avrei mai accontentato i miei genitori e che
non avrei mai concluso qualcosa di buono nella vita. Le giornate iniziavano e
finivano tutte esattamente nello stesso modo, con uguali delusioni ed
insicurezze. Non avevo amiche se non un paio di bambine e solo perché erano
anche loro delle “poverine”. Nessuno mi invitava a casa sua per i compleanni.
Ero isolata e tempestata da cattiverie quotidiane che le suore mi dedicavano
martorizzandomi con righellate sulle mani, ore trascorse in ginocchioni davanti
alla cattedra oppure dietro la lavagna , in alternativa facendomi riempire la
facciata della lavagna con numeri uno, tutti in fila, solo perché dovevo
comporli con il gambetto corto e non lungo come invece mi piaceva tanto fare e
come ancora oggi lo scrivo.
E mia madre in tutto ciò?
Provavo a lamentarmi e lei
andava dalla direttrice a dire che non dovevano farmi certe cose ma, ogni volta,
scontavo la lamentela e la situazione peggiorava, così decisi di non aprire più
bocca finché arrivò finalmente la fine dell’ultimo anno e la liberazione
dall’incubo.
Solo chi prova il peso dei
soprusi fisici e psicologici sa quanto possano essere devastanti. La mia
ricetta per non morirne? Estraniarmi, fare la finta tonta, ingoiare e zitta.
Non vedevo alternative.
Questo è un capitolo dolente, sebbene bello nella scrittura e nella descrizione. Complimenti. Serena giornata.
RispondiEliminasinforosa
Ciao Sinforosa. Come avrai capito in questa storia c'è qualcosa di autobiografico e poi c'è la mia amica che essendo cresciuta molto vicino a me mi ha ispirato a raccontare le sue esperienze tristi delle quali io ho vissuto i suoi malesseri e i suoi modi di sopravvivere. Abbiamo fatto le scuole insieme e a volte abbiamo subito entrambe le cattiverie da parte delle suore. Io ho sempre reagito pagando a mia volta, lei ha chinato la testa. Nel mio racconto c'è un po' dell'una e un po' dell'altra in un mix anche delle famiglie. I tormenti non sempre sono facili da raccontare ma spero di riuscire a rendere credibile tutta la storia. Grazie comunque dei tuoi giudizi, mi fanno piacere e mi aiutano. A presto allora.
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