Capitolo 18.
Ed eccoci all’inizio del mio affrancamento dalla
famiglia.
L’alluvione segnò per me il primo momento di
ribellione, nacque il desiderio di sentirmi utile per gli altri e anche la
dimostrazione a me stessa che avrei avuto la capacità di prendere decisioni e
di saperle mantenere.
Un evento così tragico ebbe in me un forte
significato interiore e una presa di coscienza che non mi sarei mai sognata.
Quel novembre del 1966 interruppe il mio anno
scolastico e sconvolse la mia città con una devastante catastrofe. Io abitavo
fuori dal pericolo dell’acqua perché la casa era in una zona abbastanza lontana
dal fiume, ma le conseguenze di ciò che era successo le sentimmo molto presto.
Quel giorno era festa. Noi eravamo tutti a casa e ci
svegliammo con una certa calma, ma appena aperto il rubinetto dell’acqua ci
accorgemmo che non ne usciva neppure una goccia.
“Tanta acqua in cielo e niente in casa - disse il
babbo guardando dalla finestra la pioggia che incessante ormai da giorni cadeva
forte – Abbiamo qualche bottiglia di scorta per lavarsi un po’?”
“Sì, guarda in cucina. Ora provo a telefonare a Artemio
per sentire se lui ce l’ha l’acqua”
“Mamma che è successo? Perché siamo senza acqua
stamani? Meno male che ho fatto il bagno ieri sera…”
“Pronto Artemio sono Clarissa, senti ti ho
chiamato…cosa? Ma quando è successo? Ma sei sicuro…oddio e ora come faremo…”
“Cosa succede, perché dici così – intervenne il babbo
nella conversazione telefonica – hai una faccia Clarissa, cosa c’è insomma”.
“Stamani è straripato l’Arno. Artemio dice che
Firenze è tutta allagata!”
“Aspetta accendo la radio, vediamo se dicono
qualcosa”
Il babbo si accostò alla credenza e prese una piccola
radiolina a batterie che tenevamo sempre in cucina e l’accese. La notizia si
diffuse nelle stanze come la marea che aveva invaso le strade. Eravamo
increduli e il mio primo pensiero fu per la scuola, per i miei compagni, per
Leopoldo che non avrei più visto chissà per quanto tempo.
Seguì un lunghissimo periodo nel quale i disagi
dovuti alla situazione si sommarono alla mia voglia di andare a dare una mano a
chi ne aveva realmente bisogno. Fu una strenua battaglia che mi aiutò per la
prima volta a crescere e a mostrare la mia ribellione ai dinieghi che mia madre
puntualmente mi indirizzava.
“No tu non vai in centro.”
“Ma figurati se ti dò il permesso di andare a mettere
le mani nel fango”
“E poi come vai e come torni. Fa buio presto la sera e
io ti voglio in casa” “Assolutamente non esci di casa”.
Mio padre in quel periodo fu assegnato alla consegna
dei beni necessari come cibo, acqua, latte, prodotti per l’igiene e andava con
i suoi colleghi in giro per la città a bordo di camion per distribuire ai
fiorentini ciò che necessitava. Forte di questo, rispondevo a mia madre che era
necessario l’aiuto di tutti e che anche io dovevo muovermi. Non fu facile ma ebbi
la meglio e fui molto felice del contributo che riuscii a dare.
Uno dei primi giorni dopo l’alluvione, mi recai nella
zona dove sapevo che abitava Leopoldo. Era uno dei luoghi alluvionati ed ero
preoccupata per lui perché non sapevo niente di cosa poteva essergli successo.
Vagai a lungo ma non avevo il numero preciso dell’abitazione e non riuscii a
risolvere l’enigma che mi tormentava. Lì era tutto sotto un notevole strato di
fango e l’odore che usciva dagli scantinati delle abitazioni era terribile da
sentire, soprattutto per me che non ero certo abituata ad affrontare simili
situazioni. Vomitai in un angolo per il disgusto e per la disperazione nel
vedere tanto sconforto negli occhi di chi aveva perso tutto. Cercai però di
reagire e il giorno dopo tornai dal gruppo di aiuto al quale mi ero aggregata
fin dall’inizio e con pazienza detti il mio contributo per cercare di salvare
libri e suppellettili dai negozi alluvionati.
Quanta angoscia negli occhi della gente e soprattutto
quanta dignità riuscii a trovare in uomini e donne che lavoravano tutto il giorno
per recuperare qualcosa dei loro averi.
Non potrò mai dimenticare quei giorni e soprattutto
la forza che riuscirono ad infondermi, a me ragazzina, abituata a non sporcarmi
le mani.
Fu un lungo lavoro che impegnò tutti per giorni e
giorni.
Poi ci richiamarono a scuola. Potevamo ricominciare le
lezioni perché la scuola aveva avuto pochi danni ed essendo agibile, anche noi
potemmo riprendere le lezioni. Tornò anche Leopoldo e tutti gli altri compagni
e sembrò che la normalità facesse di nuovo parte di noi. Dovevamo pensare a
studiare, per essere promossi, per andare avanti nella nostra vita.
Passarono velocemente quei quattro anni.
Mi dimenticai di Leopoldo, mi innamorai di Giulio e
poi niente più perché volevo finire, diplomarmi e iniziare a lavorare davvero.
Era la mia vita, il mio riscatto e ce la misi tutta
per attuarlo. Fare l’insegnante da quel momento è stata la cosa più bella che abbia
mai fatto e non mi sono mai potuta immaginare in nessun altro mestiere al
mondo.
Frequentai un corso per insegnare ai bambini
portatori di handicap e poi l’università.
Un paio di concorsi e poi il lavoro; la mia vita vera cominciava a tutti gli effetti anche grazie ad un uomo
che mi sosteneva e mi amava.
E la bambina ormai cresciuta si allontanava dalle
paure e dalle insicurezze.
“Uno è il delfino che salta sull’onda, due le meduse nell’acqua
profonda, tre sono le rane dentro lo stagno, quattro le oche che fanno il
bagno…" ripetono i miei ragazzi di prima quando giochiamo con le filastrocche...ed io son con loro piena di gioia!
Come sempre un racconto bello e scritto bene. Buona serata.
RispondiEliminasinforosa
p.s. Ti ho lasciato un messaggio in un post della rubrica Diario
Grazie. Sempre cara. Ho risposto al tuo messaggio su Diario. A presto
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