Quanta amarezza lascia in bocca un libro quando il racconto
ti pone davanti ad una situazione che non accetti e alla quale speravi, fino
all’ultimo, di non dover credere.
Perché un sospetto ti era nato, in un angolino della mente,
ma io almeno lo avevo subito cancellato, quasi fosse un’eresia il solo
pensarlo.
Quest’ultimo libro di Manzini ha dentro di sé una tristezza
e un disincanto che ti tolgono il fiato.
Non che gli altri libri fossero
allegri, tutt’altro, ma le battute di Rocco Schiavone tenevano l’aria “più
leggera” e grazie a quelle ingoiavi a forza anche tutte le storture legate alle
situazioni e al carattere del protagonista.
Questa volta è davvero difficile accettare tutto ciò che
accade, anche se siamo abituati alla sua sete di vendetta e alla sua voglia di
stare sempre sopra le righe.
Ma non è Montalbano lui.
Personaggi entrambi complicati ma con animi e spiriti
diversi.
In questo ultimo caso da risolvere sembra che la morte di un
trans non possa celare niente di drammatico per la vita di Schiavone, ma
Manzini crea invece, una rete fittissima di non detti e trame nascoste che
portano il protagonista a cercare sempre di più una vendetta irraggiungibile.
E’ un punto fermo dal quale ripartire, ma certo con sempre
più disincanto e “ombra” come dice una parte del titolo.
Un ragazzo giovanissimo risveglia sentimenti paterni e la
collega Caterina porta in superficie la sua ritrovata disponibilità ad amare
proprio quando tutto come “polvere”, sfugge dalle mani.
E in tutto questo,
Marina, o meglio il suo ricordo e la sua presenza, diventano sempre più
rarefatti e lontani nel tempo.
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