sito internet

mercoledì 9 gennaio 2019

All'angolo della strada principale..."Racconto. Capitolo 18"





Capitolo 18.


Ed eccoci all’inizio del mio affrancamento dalla famiglia.
L’alluvione segnò per me il primo momento di ribellione, nacque il desiderio di sentirmi utile per gli altri e anche la dimostrazione a me stessa che avrei avuto la capacità di prendere decisioni e di saperle mantenere.
Un evento così tragico ebbe in me un forte significato interiore e una presa di coscienza che non mi sarei mai sognata.


Quel novembre del 1966 interruppe il mio anno scolastico e sconvolse la mia città con una devastante catastrofe. Io abitavo fuori dal pericolo dell’acqua perché la casa era in una zona abbastanza lontana dal fiume, ma le conseguenze di ciò che era successo le sentimmo molto presto.
Quel giorno era festa. Noi eravamo tutti a casa e ci svegliammo con una certa calma, ma appena aperto il rubinetto dell’acqua ci accorgemmo che non ne usciva neppure una goccia.
“Tanta acqua in cielo e niente in casa - disse il babbo guardando dalla finestra la pioggia che incessante ormai da giorni cadeva forte – Abbiamo qualche bottiglia di scorta per lavarsi un po’?”
“Sì, guarda in cucina. Ora provo a telefonare a Artemio per sentire se lui ce l’ha l’acqua”
“Mamma che è successo? Perché siamo senza acqua stamani? Meno male che ho fatto il bagno ieri sera…”
“Pronto Artemio sono Clarissa, senti ti ho chiamato…cosa? Ma quando è successo? Ma sei sicuro…oddio e ora come faremo…”
“Cosa succede, perché dici così – intervenne il babbo nella conversazione telefonica – hai una faccia Clarissa, cosa c’è insomma”.
“Stamani è straripato l’Arno. Artemio dice che Firenze è tutta allagata!”
“Aspetta accendo la radio, vediamo se dicono qualcosa”
Il babbo si accostò alla credenza e prese una piccola radiolina a batterie che tenevamo sempre in cucina e l’accese. La notizia si diffuse nelle stanze come la marea che aveva invaso le strade. Eravamo increduli e il mio primo pensiero fu per la scuola, per i miei compagni, per Leopoldo che non avrei più visto chissà per quanto tempo.
Seguì un lunghissimo periodo nel quale i disagi dovuti alla situazione si sommarono alla mia voglia di andare a dare una mano a chi ne aveva realmente bisogno. Fu una strenua battaglia che mi aiutò per la prima volta a crescere e a mostrare la mia ribellione ai dinieghi che mia madre puntualmente mi indirizzava.
“No tu non vai in centro.”
“Ma figurati se ti dò il permesso di andare a mettere le mani nel fango” 
“E poi come vai e come torni. Fa buio presto la sera e io ti voglio in casa” “Assolutamente non esci di casa”.
Mio padre in quel periodo fu assegnato alla consegna dei beni necessari come cibo, acqua, latte, prodotti per l’igiene e andava con i suoi colleghi in giro per la città a bordo di camion per distribuire ai fiorentini ciò che necessitava. Forte di questo, rispondevo a mia madre che era necessario l’aiuto di tutti e che anche io dovevo muovermi. Non fu facile ma ebbi la meglio e fui molto felice del contributo che riuscii a dare.
Uno dei primi giorni dopo l’alluvione, mi recai nella zona dove sapevo che abitava Leopoldo. Era uno dei luoghi alluvionati ed ero preoccupata per lui perché non sapevo niente di cosa poteva essergli successo. Vagai a lungo ma non avevo il numero preciso dell’abitazione e non riuscii a risolvere l’enigma che mi tormentava. Lì era tutto sotto un notevole strato di fango e l’odore che usciva dagli scantinati delle abitazioni era terribile da sentire, soprattutto per me che non ero certo abituata ad affrontare simili situazioni. Vomitai in un angolo per il disgusto e per la disperazione nel vedere tanto sconforto negli occhi di chi aveva perso tutto. Cercai però di reagire e il giorno dopo tornai dal gruppo di aiuto al quale mi ero aggregata fin dall’inizio e con pazienza detti il mio contributo per cercare di salvare libri e suppellettili dai negozi alluvionati.
Quanta angoscia negli occhi della gente e soprattutto quanta dignità riuscii a trovare in uomini e donne che lavoravano tutto il giorno per recuperare qualcosa dei loro averi.
Non potrò mai dimenticare quei giorni e soprattutto la forza che riuscirono ad infondermi, a me ragazzina, abituata a non sporcarmi le mani.
Fu un lungo lavoro che impegnò tutti per giorni e giorni.

Poi ci richiamarono a scuola. Potevamo ricominciare le lezioni perché la scuola aveva avuto pochi danni ed essendo agibile, anche noi potemmo riprendere le lezioni. Tornò anche Leopoldo e tutti gli altri compagni e sembrò che la normalità facesse di nuovo parte di noi. Dovevamo pensare a studiare, per essere promossi, per andare avanti nella nostra vita.
Passarono velocemente quei quattro anni.
Mi dimenticai di Leopoldo, mi innamorai di Giulio e poi niente più perché volevo finire, diplomarmi e iniziare a lavorare davvero.
Era la mia vita, il mio riscatto e ce la misi tutta per attuarlo. Fare l’insegnante da quel momento è stata la cosa più bella che abbia mai fatto e non mi sono mai potuta immaginare in nessun altro mestiere al mondo.
Frequentai un corso per insegnare ai bambini portatori di handicap e poi l’università. 
Un paio di concorsi e poi il lavoro; la mia vita vera cominciava a tutti gli effetti anche grazie ad un uomo che mi sosteneva e mi amava.
E la bambina ormai cresciuta si allontanava dalle paure e dalle insicurezze.


“Uno è il delfino che salta sull’onda, due le meduse nell’acqua profonda, tre sono le rane dentro lo stagno, quattro le oche che fanno il bagno…" ripetono i miei ragazzi di prima quando giochiamo con le filastrocche...ed io son con loro piena di gioia!






2 commenti:

  1. Come sempre un racconto bello e scritto bene. Buona serata.
    sinforosa
    p.s. Ti ho lasciato un messaggio in un post della rubrica Diario

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie. Sempre cara. Ho risposto al tuo messaggio su Diario. A presto

      Elimina