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martedì 29 maggio 2018

"All'angolo della strada principale..." Racconto. Capitolo 4.





Capitolo 4.


La strada era in alto e per arrivare al mare c’era una sorta di sgangherata scalinata scavata nella roccia da percorrere. Avevo sempre un po’ di apprensione perché era molto ripida e priva di qualsiasi punto di appoggio.
Il nonno mi teneva forte la mano perché i sassi, sui quali ci appoggiavamo per scendere, erano storti e rotti e facilmente i piedi slittavano per cacciarsi dove non dovevano andare. Per rendermi più allegra tutta l’operazione, lui cantava una filastrocca che io dovevo ripetere, per distrarmi dal possibile pericolo, e ogni giorno la sillabavamo come un mantra che mi rassicurava. Se l’avessimo detta tutta e senza errori, la discesa sarebbe andata bene.
“Uno è il delfino che salta sull’onda, due le meduse nell’acqua profonda, tre sono le rane dentro lo stagno, quattro le oche che fanno il bagno…”
La tiritera arrivava al dieci con i bruchi che mangiano le pere, ma noi a quel punto eravamo solo a metà del percorso e quindi ricominciavamo con una nuova storiella:
“Uno è il sole che splende di giorno, due sono gli occhi che guardano intorno, tre sono i magi che vanno che vanno, 4 stagioni formano un anno…” e alla fine toccavamo terra ed eravamo arrivati al mare.
La spiaggia che incontravamo non era altro che una stretta lingua di ciottoli, tanti mattoni e scogli. Il nonno la chiamava “la spiaggia rossa”.
In alto si vedevano la cresta della strada colma di fichi d’india, piante di ginestre e pini che segnavano il crostone di pietra sul quale, più in alto ancora, un castello militare posto a difesa della cittadina, imponeva la sua presenza grazie ad una pianta quadrata solida e rassicurante.
In spiaggia i miei piedi non godevano della morbidezza della sabbia ed io tenevo sempre i sandali perché sentivo meno male. L’acqua però era trasparente e fredda. Bella, proprio perché non annebbiata dalla sabbia, permetteva a chi ci entrava di vedere il fondale e di guardarsi le gambe.
C’era un primo tratto nel quale riuscivo a toccare con i piedi, appoggiandoli sopra enormi pietroni pieni di viscide alghe, poi lo strapiombo, blu scuro, dove io non arrivavo mai.
Dopo un rapido bagno che ci rinfrescava, cominciavo a giocare. Il mio rituale prevedeva sempre un lungo momento tutto mio. Mi piaceva divertirmi da sola. Dalla piccola borsa tiravo fuori i miei giochi. Niente formine o paletta, la sabbia non c’era e sarebbe stato inutile averle. Avevo invece un secchiello che portava il nonno e due bamboline di plastica con qualche tegamino. Disponevo tutto sui sassi e la mia fantasia faceva il resto.
Alcune volte preparavo il pranzo per le mie amiche
“Signora Luisa assaggi questa frittatina. Senta com’è buona…”
Altre volte facevo loro il bagno, altre ancora, ero la mamma che impartiva lezioni di buon comportamento ai figli.
“No Roberto, così non puoi comportarti, devi darmi retta. Quando dico di venire qui devi obbedire subito. Qua ci sono tanti pericoli e tu sei piccolo. Guarda tua sorella e impara!”
Il nonno nel frattempo leggeva il giornale senza perdermi di vista e senza interrompermi.
Poi era il momento del secondo bagno, più lungo e gratificante. Dovevo ancora imparare a nuotare bene e lui si prodigava ad insegnarmi, soprattutto  per non avere paura, anche se a volte toccavo appena il fondo.
“Metti la testa sott’acqua e apri gli occhi” mi diceva ed io obbedivo sentendo il sale pizzicare.
Quanti schizzi facevo nei piccoli tuffi e quanto si muovevano le mie gambe e i miei piedi per rimanere a galla.
Il paesaggio che riuscivo a vedere da lì era molto bello. Alti scogli incorniciavano quell’angolo di mare, come pilastri protettivi a farne da cornice, e l’acqua cristallina rifletteva il verde-azzurro del cielo.
Una volta usciti mangiavamo la merenda preparata dalla nonna. Un panino con la mortadella oppure con della marmellata, mi sembravano una vera delizia.
A quel punto cominciavamo la nostra pesca.



martedì 22 maggio 2018

"All'angolo della strada principale..." Racconto. Capitolo 3.




Capitolo 3.

Dopo i binari del treno trovavamo davanti a noi un vasto campo.
Era coltivato a granturco. Io ero piccola ed attraversare quella zona era un po’ come passare in un luogo dove potevano spuntare perfino animali feroci. Dovevo stare molto attenta.
Non potevo calpestare le alte piante di mais, e quindi scansavo con i piedi la base dei fusti. Il nonno me lo ripeteva sempre ed io avevo presto imparato.
Avevo dei sandaletti che a volte col sudore mi scivolavano un po’ ma mi piacevano tanto e anche se ormai erano vecchi, ogni giorno, testardamente, me li infilavo come una reliquia da portare con me per tutta la giornata.
Capitava che il nonno mi desse una pannocchia da sgranocchiare.
Ricordo che una volta gli chiesi “Nonno ma possiamo mangiare questa roba non nostra?”
La sua risposta fu: “No, non si potrebbe fare, ma lo facciamo lo stesso. Questo è un bene della natura e non facciamo male a nessuno. Guarda questo campo quanto è grande, ci sono pannocchie per tutti. Noi ne prendiamo una sola, ogni tanto, e non calpestiamo né roviniamo le piante.”
Io credetti a ciò che mi disse, perché il mio nonno aveva sempre ragione, e affondai i denti nei chicchi gialli e maturi con un sorriso.
Il campo era profondo e il percorso tortuoso perché altre coltivazioni affiancavano il mais.
Per farmi felice ed incitarmi a proseguire, lui mi raccontava sempre storie inventate lì per lì che parlavano di animali, natura selvaggia e uomini alla ricerca di avventure come se lui le avesse vissute durante i suoi viaggi per mare e per terra.
Ogni giorno ascoltavo in religioso silenzio tutto ciò che mi narrava, cercando di riportare alla mia realtà il fiume di parole che si libravano nel vento.
Alcune volte mi sentivo la protagonista dei fatti e mi vedevo ormai grande, padrona di sogni e di desideri nascosti, affrontare mille pericoli senza averne paura. Altre, ero la bambina solitaria e innocente, tanto vicina a me, che fuggiva dai dolori scegliendo di soffrire pur di non rimanere sola.
Dopo aver percorso un tratto pieno di papaveri, che a volte raccoglievo e mi portavo dentro la borsetta, che conteneva i miei giochi preferiti, trovavamo uno stretto corridoio di girasoli e lì dovevamo fare un giro più lungo per passare oltre. Bellissimi, col capo chino e i chicchi maturi, quei fiori mi accompagnavano nell’ultimo tratto prima dell’arrivo e il nonno mi spiegava che dai chicchi si faceva l’olio e che, durante la giornata, seguivano con la corolla il passaggio del sole.
“Che buffo”  pensavo  “fiori che si muovono.”
Poi, dopo l’ultima svolta, all’improvviso ecco la strada, polverosa, che mi avrebbe portato alla discesa verso il mare.
Sulla sinistra dello sterrato che percorrevamo, un grande cancello di ferro si apriva sul cimitero del paese. Da fuori si vedevano le lapidi più imponenti, una accanto all’altra, alcune con statue bianchissime altre inverdite ormai dal tempo e dalla salsedine. Angeli e donne piangenti erano le figure più rappresentate e diventavano un tutt’uno con la terra che accoglieva le salme.
Non mi piaceva un granché quel punto preciso di tutto il nostro percorso.
L’idea che avevo della morte in quel momento era molto vaga; sapevo sì che era un viaggio senza ritorno, ma non avevo ancora chiaro cosa volesse dire la parola “dolore”, cioè quella disperazione che può prenderti e rubarti intere giornate perché queste trascorrono solo nel ricordo e nel pianto della persona che hai amato.
Nessuno dei miei parenti conosciuti aveva ancora percorso quel viaggio ed io non sentivo tristezza, nonostante questo però, dover passare quasi quotidianamente davanti a quel cancello mi faceva male, pertanto noi scivolavamo veloci ed iniziavamo una rocambolesca discesa verso la spiaggia.




martedì 15 maggio 2018

"All'angolo della strada principale..." Racconto. Capitolo 2.




Capitolo 2.

Io e il nonno percorrevamo con attenzione un tratto di strada sterrato che ci permetteva di arrivare vicino ai binari, e il treno era immediatamente il primo ostacolo da superare.
La ferrovia passava da lì senza grandi protezioni per chi volesse attraversarla. C’erano paletti in cemento bianco sgretolati che non riuscivano più a sbarrare il cammino perché ridotti a scheletri di solo ferro arrugginito attraverso i quali, io bambina, passavo facilmente.
“ Stai attenta a non farti male e soprattutto scivola attraverso, spostando le spalle, in modo da trovarti di profilo. Dopo, puoi sgattaiolare veloce” mi diceva il nonno.
Lui era magro e sapeva bene qual era il punto preciso che gli permetteva di passare inosservato e io gli andavo dietro senza avere dubbi o timori.
Ci trovavamo subito davanti ai binari.
E qui per me, ogni volta era un tuffo al cuore perché la paura che il treno arrivasse all’improvviso era forte. In realtà in quel punto i binari correvano dritti e si vedeva e si sentiva con molto anticipo se stava arrivando una locomotiva, sia che stesse partendo dalla piccola stazione vicina per andare verso il porto, sia che invece stesse arrivando da qualche città.
E un treno che passava di solito c’era.
Io e il nonno rimanevamo prudentemente vicini e il più lontano possibile dai binari e quando sentivo lo sferragliare della macchina con le carrozze dietro, avevo un brivido.
Il mio corpo, tutto, vibrava di piacere quando l’aria si muoveva veloce, spostata dalla mole del treno: gli occhi chiusi, i muscoli in tensione, la bocca semiaperta, un rapido urletto e poi finalmente la consapevolezza che era passato e non c’era più pericolo.
I treni hanno un odore particolare dovuto ai materiali ferrosi che sono usati, ai freni che si surriscaldano, ai passeggeri che li invadono e questo odore nel tempo non è cambiato. Ancora oggi, quando entro in una stazione, percepisco con tutta me stessa le medesime emozioni che provavo in quei momenti e l’odore, sempre quello negli anni, mi fa battere il cuore.
Ma la mia avventura doveva proseguire, ed io ben consapevole che ogni giorno il nonno avrebbe inventato qualcosa di nuovo per farmi felice, gli davo la mano e scavalcavo i binari per proseguire la strada che mi avrebbe portato al mare.
Il mio nonno era un personaggio particolare.
Si chiamava Carlo ed era un nonno acquisito, dato che era il secondo marito della nonna ma, né lui né io, abbiamo mai sentito la differenza. Mi voleva molto bene e dedicava tutto il suo tempo a rendermi felice e curiosa.
Scattante, sempre indaffarato, quando ancora lavorava ed io trascorrevo le mie vacanze estive a casa dei nonni, ricordo ancora che la mattina molto presto si preparava, indossava una tuta blu scura e, con un pentolino nel quale portava il suo pranzo, si avviava verso l’altoforno.
Era un lavoro duro e non schivo da pericoli il suo.
L’ingresso della grande acciaieria non distava molto dalla casa nella quale i nonni abitavano e in certe ore della giornata sciami di uomini camminavano chiacchierando, tutti uguali per strada, avviandosi ciondolando, per l’inizio del turno.
A me bambina, che li osservavo dalla finestra, quest’onda blu che passava per strada mi sembrava un fiume, tranquillo, che defluiva anziché verso il mare, all’interno del paese. Non mi rendevo conto del sacrificio e a volte delle sofferenze che si nascondevano negli animi di quegli uomini, ma ero ancora piccola per pormi domande così; a me sembrava solo un curioso corteo quello che giornalmente scivolava sotto la finestra.
Quando arrivò il momento della pensione del nonno per me fu una vera gioia: sapevo che avrebbe potuto dedicarmi molto più tempo e questo mi incuriosiva facendomi fantasticare su tutto ciò che avremmo potuto fare insieme da quel momento in poi.