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venerdì 29 giugno 2018

Gelato di frutta (senza gelatiera) rapido e buonissimo!






Avete mai preparato il gelato alla frutta senza usare la gelatiera?
Semplice e velocissimo questo modo vi offrirà dei gelati buoni e soprattutto la certezza che la frutta sia realmente l’elemento principale.
Darlo ai bambini quindi, quando fa caldo,  vi farà sentire brave mamme!

Questa ricetta ve la presento con le albicocche ma potete usare pesche oppure fragole, l’importante è che siano ben mature.

Ingredienti:

400 g. di frutta (albicocche)
200 ml. di panna da montare già zuccherata
90g. di latte condensato
1 cucchiaio di rum o altro liquore (ma questo solo se è per adulti)

 Ricetta:

Per prima cosa si sbuccia la frutta e si taglia a cubetti.
Una volta pronta occorre un frullatore o un mixer ad immersione per ottenere una crema liscia che setaccerete poi con un colino per togliere la parte più fibrosa della polpa.
A questo punto aggiungete il latte condensato (e il liquore).
Mescolate bene e lasciate riposare.
Nel frattempo montate a neve la panna che deve essere ben fredda.
Ora mescolate un po’ alla volta tutti gli ingredienti, incorporandoli ben bene, sempre partendo dal basso per non smontare la panna.
Usate un contenitore da plumcake e versatevi il composto per poi metterlo nel freezer per 4/5 ore.
Quando sarà pronto potrete guarnire le vostre coppette di gelato con dei biscottini o cialde croccanti e anche con un po’ di cioccolato amaro grattato sopra.

martedì 26 giugno 2018

"All'angolo della strada principale..." Racconto. Capitolo 8.





Capitolo 8.

L’alternativa al gioco con Arturo era uscire ed andare in paese a camminare. Aspettavamo però che facesse meno caldo e uscivamo tutti e tre con l’obiettivo di andare a mangiare una pizza per cena. La nonna mi faceva indossare il “vestito buono” ed uscivamo.
Odiavo quel vestito.
Ne avevo altri, ma erano più o meno tutti uguali. Me li cuciva la mamma che faceva la sarta e che aveva deciso per me lo stile che mi stava bene. Ero magrolina e quindi il vestito doveva essere con tante pieghe all’altezza della vita. Io guardavo con invidia le mie coetanee che uscivano con delle sottanine più strette e con magliette colorate e ogni volta avrei voluto strappare quell’abito e far capire alla mamma che proprio non mi piaceva. Ma non c’era niente da fare, i miei abiti erano tutti così.
Nelle nostre uscite facevamo il giro del paese. Alcune volte passavamo dal viale alberato del lungomare e io mi affacciavo sempre ai terrazzini sospesi che permettevano di vedere le spiagge sottostanti. Oppure, passando dal centro, arrivavamo alla grande piazza a picco sul mare da cui si vedevano vicinissime le isole che si trovavano di fronte.
Lì trovavamo sempre alcuni amici del nonno che pescavano con lunghissime lenze oppure giovanotti che facevano a gara a chi si buttava in mare dalla roccia più alta.
“Non ce la farai mai. Io sono il più bravo” diceva qualcuno e un altro rispondeva  “Ma cosa dici guarda…” e giù a capofitto nelle onde.
Intorno al crocchio dei giovanotti che, come galletti, dimostravano tutta la loro bellezza e bravura, c’erano sempre gruppetti di ragazze tutte sorrisini e moine. Le guardavo incuriosita cercando di capire il senso di tutti quei versi ma sapendo, nel profondo, che anche loro erano lì per mostrarsi.
Le mie curiosità su questi comportamenti non venivano soddisfatte se non dalla mia immaginazione, non era infatti semplice chiedere ai nonni la spiegazione dei perché che cominciavano ad affacciarsi nella mia testa. Ero ancora piccola e di queste cose non potevo parlare.
Tornando verso la piazza vicina alla stazione, ci fermavamo a mangiare la pizza. Il nonno ordinava sempre la solita. Sapeva bene cosa piaceva a me e alla nonna ed era facile per lui portarci un grande piatto fumante con la pasta alta, tagliata a quadrotti da una sorta di griglia già predisposta, della misura delle pizze. Per me la cosa più divertente era poter prendere direttamente i pezzetti con le mani, senza fatica e morderli con gusto.
Mi pareva la fine la del mondo!
Il pizzaiolo veniva spesso a salutarci.
“Anche stasera la tua nipotina è bella come il sole. La mia ormai è grande e la vedo poco. Mi manca. Tu goditela finché puoi mi raccomando” e si allontanava.
Io mi sentivo una reginetta dopo queste parole. M’immaginavo bella e quella pizza acquistava all’improvviso un sapore diverso.

Ci fu un’altra occasione nella quale la pizza, una pizza speciale, assunse una importanza particolare ed è un ricordo ancora vivido nella mia mente.




Eterna domenica. Recensione del film.




Questo è un film spagnolo uscito nel 2018 e presente da poco sulla piattaforma di NETFLIX.
Di genere drammatico e dai ritmi lenti il film traccia la storia di una giovane donna che era stata abbandonata dalla madre quando era piccola. Cresciuta in un istituto perché anche il padre aveva scelto di farsi un’altra famiglia, un giorno Chiara (ormai adulta) decide di conoscere sua madre e dopo averla rintracciata, le fa un’unica richiesta: trascorrere una settimana intera con lei, senza pretendere più niente.
La mancanza di rapporto fra le due donne crea momenti di sfida e di disagio ma fa nascere nella madre il desiderio di recuperare ciò che per anni è stato tenuto nascosto.
 Chiara dal canto suo, ora sente di avere bisogno di affetto perché a sua volta nasconde un segreto che è il motivo della richiesta di riavvicinamento.
Scorrono con lentezza i giorni di convivenza, mentre si rende evidente il dramma di Chiara e i dubbi di Anabel; e tutto si svolge in un ambiente povero e nel pieno di una natura in parte selvaggia, che circonda la casa.
Finale “colmo” con la scelta di Anabel che almeno una volta nella vita vuole essere completamente vicina alla figlia con un atto che non ha modo di essere più cambiato.

E’ un film questo sulla riflessione del rapporto madre/figlia, sulla capacità che una madre può avere per un atto forte di riscatto e soprattutto sulla capacità di far scorrere il tempo sempre più a misura dei bisogni dei protagonisti.
Se avete la possibilità di vederlo lo consiglio pur avvertendo che la tensione non viene mai soffocata dalla calma delle scene.


martedì 19 giugno 2018

"All'angolo della strada principale..." Racconto. Capitolo 7.






Capitolo 7.

La struttura esterna della casa, sul lato che non dava sulla strada, era abbastanza particolare.
Dalla portafinestra di cucina si usciva in una zona quadrata, un terrazzino che aveva a sinistra un muretto ed un’apertura con dei gradini che salivano verso un altro terrazzo, appartenente all’abitazione confinante.  Non c’era separazione fra i due terrazzi ed io potevo andare a trovare Arturo, un bambino di dieci anni che non aveva più il padre.
Magrolino e sempre pallido nonostante vivesse in un posto di mare, Arturo aveva l’aria del malato fisso. Era simpatico ed io ci giocavo volentieri ma la sua mamma non voleva che si stancasse e alcune volte mi mandava via nel bel mezzo di un’avventura con i pirati. Ricordo di aver chiesto alla nonna che cosa avesse, perché anch’io soffrivo spesso di tonsilliti e quando mi ritrovavo con la febbre e il dolore alla gola quasi insopportabile pensavo a lui e alle sue sofferenze. Ma la nonna non ha mai voluto raccontarmi la verità e solo molti anni dopo ho saputo che se n’era andato via per una leucemia e che la mamma non aveva saputo darsi pace a tal punto che era sparita, in mare, un giorno di ottobre.
Questo ragazzino però ha lasciato un segno indelebile nella mia mente.
Grazie a lui ho scoperto il sesso.
Certo questa è una parolona da dire, ma non ci sono dubbi sul fatto che fu lui a farmi capire la differenza fra maschi e femmine.
Ero piccola e ingenua a cinque anni. Frequentavo l’asilo ma quella era una struttura gestita da suore che, pur nella promiscuità delle classi fra maschi e femmine, non lasciavano adito a pensieri di nessun genere. In verità a tre anni, a dispetto di tutto, mi ero innamorata di Paolo che frequentava la mia stessa classe e una volta lui, che ricambiava i miei “sentimenti”, mi aveva dato un bacio sulla guancia. Io non avevo lavato quel punto preciso del viso per tanto tempo, illudendomi che sarebbe rimasto stampato un po’ di lui su di me ma poi, col passare del tempo tutto si era affievolito e i teneri sentimenti di bambini, si erano dileguati.
Nella casa al mare mi sentivo più libera che in città. Arturo mi faceva usare i suoi giochi quando ci trovavamo sul suo terrazzo e, alcune volte, mi portava dietro un angolo nascosto perché almeno nessuno ci vedeva. Fu così che in un pomeriggio particolarmente caldo lui si spogliò completamente davanti a me ed io rimasi a bocca aperta, incapace di chiedergli che cosa fosse quella cosa che aveva fra le gambe. Lui sembrava sfidarmi, era più grande di me e quindi era anche più smaliziato.
“Toccami pure, ci puoi giocare se vuoi. Questo è solo un pezzetto del mio corpo, come un braccio o un piede. Quelli li tocchi continuamente quando giochiamo quindi puoi toccare anche lui.”
Inutile dire che il leggero cambiamento che vidi nelle dimensioni e nella durezza non mi impaurirono. Era una parte del suo corpo, mi aveva detto, e quindi che paura potevo avere? Nessuno ci vide quel giorno e neppure le altre volte nelle quali il gioco continuò a diventare fisico, solo a suo beneficio.
Quando da adulta provai di nuovo a toccare il sesso di un uomo, il ricordo di quel ragazzo mi fece compagnia e mi procurò strane sensazioni alla sola idea di quella bravata fatta da piccola.