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martedì 22 maggio 2018

"All'angolo della strada principale..." Racconto. Capitolo 3.




Capitolo 3.

Dopo i binari del treno trovavamo davanti a noi un vasto campo.
Era coltivato a granturco. Io ero piccola ed attraversare quella zona era un po’ come passare in un luogo dove potevano spuntare perfino animali feroci. Dovevo stare molto attenta.
Non potevo calpestare le alte piante di mais, e quindi scansavo con i piedi la base dei fusti. Il nonno me lo ripeteva sempre ed io avevo presto imparato.
Avevo dei sandaletti che a volte col sudore mi scivolavano un po’ ma mi piacevano tanto e anche se ormai erano vecchi, ogni giorno, testardamente, me li infilavo come una reliquia da portare con me per tutta la giornata.
Capitava che il nonno mi desse una pannocchia da sgranocchiare.
Ricordo che una volta gli chiesi “Nonno ma possiamo mangiare questa roba non nostra?”
La sua risposta fu: “No, non si potrebbe fare, ma lo facciamo lo stesso. Questo è un bene della natura e non facciamo male a nessuno. Guarda questo campo quanto è grande, ci sono pannocchie per tutti. Noi ne prendiamo una sola, ogni tanto, e non calpestiamo né roviniamo le piante.”
Io credetti a ciò che mi disse, perché il mio nonno aveva sempre ragione, e affondai i denti nei chicchi gialli e maturi con un sorriso.
Il campo era profondo e il percorso tortuoso perché altre coltivazioni affiancavano il mais.
Per farmi felice ed incitarmi a proseguire, lui mi raccontava sempre storie inventate lì per lì che parlavano di animali, natura selvaggia e uomini alla ricerca di avventure come se lui le avesse vissute durante i suoi viaggi per mare e per terra.
Ogni giorno ascoltavo in religioso silenzio tutto ciò che mi narrava, cercando di riportare alla mia realtà il fiume di parole che si libravano nel vento.
Alcune volte mi sentivo la protagonista dei fatti e mi vedevo ormai grande, padrona di sogni e di desideri nascosti, affrontare mille pericoli senza averne paura. Altre, ero la bambina solitaria e innocente, tanto vicina a me, che fuggiva dai dolori scegliendo di soffrire pur di non rimanere sola.
Dopo aver percorso un tratto pieno di papaveri, che a volte raccoglievo e mi portavo dentro la borsetta, che conteneva i miei giochi preferiti, trovavamo uno stretto corridoio di girasoli e lì dovevamo fare un giro più lungo per passare oltre. Bellissimi, col capo chino e i chicchi maturi, quei fiori mi accompagnavano nell’ultimo tratto prima dell’arrivo e il nonno mi spiegava che dai chicchi si faceva l’olio e che, durante la giornata, seguivano con la corolla il passaggio del sole.
“Che buffo”  pensavo  “fiori che si muovono.”
Poi, dopo l’ultima svolta, all’improvviso ecco la strada, polverosa, che mi avrebbe portato alla discesa verso il mare.
Sulla sinistra dello sterrato che percorrevamo, un grande cancello di ferro si apriva sul cimitero del paese. Da fuori si vedevano le lapidi più imponenti, una accanto all’altra, alcune con statue bianchissime altre inverdite ormai dal tempo e dalla salsedine. Angeli e donne piangenti erano le figure più rappresentate e diventavano un tutt’uno con la terra che accoglieva le salme.
Non mi piaceva un granché quel punto preciso di tutto il nostro percorso.
L’idea che avevo della morte in quel momento era molto vaga; sapevo sì che era un viaggio senza ritorno, ma non avevo ancora chiaro cosa volesse dire la parola “dolore”, cioè quella disperazione che può prenderti e rubarti intere giornate perché queste trascorrono solo nel ricordo e nel pianto della persona che hai amato.
Nessuno dei miei parenti conosciuti aveva ancora percorso quel viaggio ed io non sentivo tristezza, nonostante questo però, dover passare quasi quotidianamente davanti a quel cancello mi faceva male, pertanto noi scivolavamo veloci ed iniziavamo una rocambolesca discesa verso la spiaggia.




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